Nuovi sviluppo nella ricerca sulla Sindrome da Deficienza di CDKL5

Tommaso Pizzorusso – Scuola Normale Superiore di Pisa

La Sindrome da Deficienza della proteina CDKL5 (CDD) è una patologia dovuta a mutazioni della proteina CDKL5 che ne compromettono parzialmente o completamente la funzione. La sintomatologia della CDD ha alcune similitudini con la Sindrome di Rett, ma è caratterizzata da una forte epilessia ad esordio precoce. Grazie agli sforzi degli scienziati sono disponibili modelli animali della CDD che sono studiati per comprendere le basi biologiche della malattia e per elaborare possibili strategie terapeutiche. Questo sommario intende riassumere alcuni recenti avanzamenti nel campo ed è stato presentato al congresso AIRETT 2022.
Un primo studio analizzato è quello pubblicato sul Journal of Clinical Investigations nel 2021 da Terzic e collaboratori. Questo studio utilizza dei topolini CDD modificati geneticamente per porsi delle importanti domande alla base dello sviluppo della sintomatologia della CDD. La prima di queste domande è cosa succede se la proteina CDKL5 viene persa quando lo sviluppo è già terminato. Porsi questa domanda è importante per capire se la CDKL5 abbia un ruolo solo durante lo sviluppo oppure se sia sempre necessaria. Lo studio mostra che anche la perdita di CDKL5 da adulti induce la comparsa di sintomi dimostrando che la CDKL5 è necessaria durante tutta la vita e non solamente durante la fase dello sviluppo.

È interessante notare che tra i vari sintomi analizzati vi erano anche le alterazioni delle risposte a stimoli sensoriali registrabili tramite EEG. L’interesse per questo tipo di valutazione deriva dalla possibilità di scoprire un valido biomarcatore capace di monitorare l’andamento della malattia o la risposta a trattamenti sa nella CDD che nella Sindrome di Rett. Una seconda domanda, posta nello studio di Terzic e colleghi, è stata se i sintomi che si instauravano nei topi mancanti di CDKL5 potessero regredire e se si riuscisse a riattivare la proteina CDKL5. I risultati confermano questa possibilità dando quindi speranza alla possibilità che interventi che avvengono anche quando i sintomi sono già presenti, possano averi effetti benefici. È interessante notare che gli effetti migliorativi si riuscivano ad ottenere solo se la riattivazione di CDKL5 avveniva in modo graduale, infatti, una riattivazione eccessivamente rapida aveva effetti molto negativi sulla salute dell’animale. Quindi futuri studi che valutino la possibilità di ripristinare il CDKL5 per mezzo di approcci come la terapia genica dovranno considerare che la riattivazione dovrà essere guidata in modo da essere progressiva.

Un altro interessante studio è quello di Gurgone e collaboratori uscito su Neuropsychopharmacology nel 2022. In questo studio si mostra come le alterazioni morfologiche presenti a livello delle sinapsi nella CDD, che erano state osservate in studi precedenti sul topo o su neuroni in coltura, sono presenti anche in campioni autoptici del cervello umano con CDD. Questo dato rassicura sulla validità degli studi in questi modelli, in rapporto a quanto accade nel paziente, e conferma come la sinapsi sia un distretto tra i più colpiti nella CDD e su cui si potrebbero focalizzare gli studi per comprendere e curare questa patologia. Infatti, nello studio di Gurgone e colleghi si cerca di rimediare a questi deficit sinaptici tramite il trattamento con sostanze che agiscono stimolando i recettori per il glutammato mGluR5. I risultati mostrano effetti positivi sia sulla morfologia che sul funzionamento sinaptico e determinano miglioramenti riscontrabili anche a livello comportamentale. Questo studio permette di investigare questo nuovo bersaglio terapeutico con farmaci che siano capaci di stimolare in modo controllato mGluR5, evitando i possibili effetti negativi sull’epilessia.

Lo studio di Viglione e collaboratori del 2002, pubblicato su Human Molecular Genetics, ha come argomento la scoperta di biomarcatori funzionali che siano utilizzabili per la valutazione del paziente. L’avanzamento delle ricerche sulla CDD sta portando a trial clinici che però necessitano di misure affidabili per valutare l’efficacia del trattamento. Un’ulteriore problematica per trovare dei buoni biomarcatori funzionali nella CDD, ma anche nella Rett ed in altre patologie, è che le misurazioni devono poter essere effettuate in pazienti talvolta non collaborativi. Queste problematiche hanno spinto Viglione e colleghi a studiare l’andamento dell’ampiezza della pupilla in topi con mutazioni di CDKL5. La pupillometria, infatti, necessita solo di una ripresa con una telecamera dell’occhio e al soggetto non viene richiesto un impegno particolare. Inoltre, è una misura oggettiva e quantitativa e rappresenta quindi un potenziale biomarcatore adatto alla CDD.

A supporto di questa possibilità lo studio mostra chiare alterazioni nella pupilla sia a riposo che quando nell’ambiente sono presenti stimoli inattesi. È da sottolineare che il semplice riflesso pupillare alla luce non era alterato nei topi CDD, indicando che probabilmente le anormalità pupillari presenti nei topi CDD derivano dal malfunzionamento di strutture cerebrali poste più a monte delle strutture che determinano il riflesso pupillare alla luce e che saranno probabilmente investigate in futuri studi. Analisi da effettuarsi sui pazienti CDD permetteranno inoltre di validare questa metodologia completamente non invasiva come biomarcatore nell’uomo.
Infine, vi sono promettenti indicazioni, presentate per la prima volta al congresso AIRETT 2022 che, nella sindrome CDD vi siano alterazioni a livello del microbiota intestinale. Gli studi presentati dalla Dr.ssa Paola Tognini in collaborazione con la Dr.ssa Aglaia Vignoli si svolgono nell’ambito di un progetto supportato dalla Fondazione Telethon.

Sebbene lo studio sia ancora in corso i dati evidenziano già alterazioni del microbiota, ovvero della popolazione di microrganismi presente nell’intestino, sia in topi con mutazioni per la CDKL5 che in pazienti CDD. L’utilità di questo tipo di studi è duplice. Da una parte potrebbero fornire dei biomarcatori misurabili nelle feci costituibili dalla presenza di specifici batteri, dall’altra suggeriscono che la normalizzazione del microbioma intestinale potrebbe essere utile sia per migliorare i sintomi presenti a livello gastrointestinale sia per quelli a livello cerebrale. Infatti, è sempre più chiara l’esistenza del così detto asse intestino-cervello per cui fattori prodotti nel nostro intestino da parte del microbiota possono arrivare al cervello ed avere azioni positive o negative sulla funzionalità neuronale. È quindi possibile che interventi sul microbiota stesso e/o sulla dieta possano quindi migliorare le condizioni dei pazienti. Gli studi futuri saranno mirati, ad esempio, a capire quali siano i mediatori chimici dell’azione del microbiota sul cervello e utilizzare queste conoscenze per elaborare nuovi trattamenti basati su questi fattori che dall’intestino riescono a modulare il nostro cervello.

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